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Romania 2017

"Un invito, poi un viaggio .. così ti ho visto, mi hai accolto..."

 Inizia proprio con un invito la mia avventura al Corso Partenti, e da lì un viaggio lungo un anno, creando legami, scoprendo tante cose nuove, riflettendo su me stessa. Il Corso Partenti è un cammino di un anno, composto da circa dieci incontri, organizzato dai salesiani di Torino, per educare i giovani alla mondialità, alla multiculturalità e prepararli all’esperienza estiva di missione. Insieme a me hanno fatto questo viaggio altri 40 ragazzi, con cui ho condiviso un’esperienza di riflessione, crescita e amicizia.
Ho capito che a volte per fare chiarezza su te stesso devi cambiare prospettiva, andare più lontano. E io sono andata fino in Romania.
Quando dicevo alle persone che sarei andata in missione in Romania, mi guardavano con facce perplesse e spesso i ragazzi mi chiedevano “ma cosa ci vai a fare là?”. E io: “vado a fare estate ragazzi, come faccio qui, ma con i bambini rumeni”. Inizialmente neanche io ero troppo convinta della mia destinazione, perché pensavo che missione volesse dire andare dall’altra parte del mondo, magari in Africa, vedere una realtà completamente diversa dalla tua, una povertà così evidente che ti spacca dentro, che mette in discussione tutto. Sentivo il bisogno che Dio rivoltasse tutte le mie certezze. Ma Dio non segue le nostre (e la mia) logica, per fortuna. E la missione è stata molto più di quanto io potessi aspettarmi.
Sono partita con 4 ragazze che hanno partecipato con me al Corso Partenti: Sara, Giulia, Elena e Federica, e ci ha accompagnate una coppia di giovani sposi, Agostino e Mery. Il gruppo è stata la mia famiglia per le due settimane passate in Romania, sostegno e aiuto nei momenti difficili, compagni di risate e di riflessioni.
E così sono atterrata, il 28 luglio, in un paese dalle mille contraddizioni. La mia avventura si è svolta in due contesti completamente diversi, quasi come se avessi vissuto due missioni in una.
Il primo: Bacau, una città situata nel nord-est della Romania, vicino alla Moldavia, in una delle zone più povere. Grandi palazzoni, eredità del comunismo, tutti uguali, tutti grigi. Grandi centri commerciali, nuovi di zecca, puliti e ordinati. Asfalto ovunque, grandi strade che collegano i quartieri della città.
Il secondo: Horgesti, un piccolo paesino rurale a circa 45 km da Bacau, che ti fa fare un tuffo indietro nel tempo, all’Italia di un secolo fa. Piccole villette a più piani, alcune case diroccate, costruite con fango e legno. La popolazione d’estate raddoppia, per i rientri di chi è andato all’estero, soprattutto in Italia, a cercare lavoro. Carretti trainati da cavalli, tutt’intorno campi di mais e girasoli. Nella “piazza centrale” un pozzo e una grande chiesa, cuore pulsante del paese.
Ho scoperto alcune cose sulla Romania, con le quali spero di spaccare qualche pregiudizio: la Romania è il paese delle contraddizioni; la vita costa di meno che da noi, ma non così tanto; non si guadagna di più, lo stipendio medio è circa 1/3 di quello italiano; non ci sono molte possibilità di studio e di lavoro per i giovani, che spesso dicono di voler andare via dal loro paese per avere delle possibilità in più. La corruzione è la regola, ed è alla luce del sole, molto più che da noi. Ma in tutto questo la Romania ha anche un altro volto che abbiamo scoperto: quello dell’accoglienza, della semplicità, di una genuinità e gentilezza rare da trovare.
I primi giorni di missione siamo stati accolti dalla comunità salesiana di Bacau. A Bacau c’è un oratorio bellissimo, un “pugno nell’occhio colorato” in mezzo ai palazzoni grigi della città. All’oratorio di Bacau abbiamo partecipato al Club Don Bosco, due settimane di post-estate ragazzi, con circa 150-180 bambini. La difficoltà principale all’inizio è stata quella della lingua (per chi dice che il rumeno è simile all’italiano, non è mica vero :)). Fin dal primo giorno, alle 8 di mattina, quando abbiamo messo piede in oratorio, i bambini ci sono corsi incontro invitandoci a giocare con loro a calcetto (il gioco in assoluto più competitivo in oratorio :)), parlandoci in rumeno senza che capissimo molto, ma loro continuavano a parlare, a chiedere, a raccontare. È stato difficile non poter parlare con loro, sì a volte ci capivamo a gesti o con un po’ di inglese stentato, ma spesso mi sono trovata a pensare che questa barriera linguistica fosse veramente insuperabile. E invece, proprio qui, ho vissuto quella che abbiamo chiamato la “missione dello stare”, senza fare nulla di particolare, dell’imparare che spesso e volentieri non sono indispensabile, e che la difficoltà più grande, perché non siamo abituati a farlo, è “sprecare” il proprio tempo per gli altri: condividere, ascoltare, osservare, ridere. Stare senza far nulla. Per i bambini ciò che era importante non era tanto quello che dicevamo nel nostro rumeno zoppicante, ma il fatto che fossimo lì per loro, con loro, per condividere tempo e divertimento.
Dopo alcuni giorni è iniziata la “seconda missione”, ad Horgesti. Il nostro compito era quello di fare da supporto ad un gruppo di animatori (ragazzi di 14-15 anni) radunati dal parroco, che voleva iniziare da zero un’esperienza di estate ragazzi proprio in quel piccolo paese. Abbiamo scoperto che in Romania il concetto di estate ragazzi è poco diffuso, perciò i ragazzi, soprattutto d’estate e nei paesi di campagna, sono abituati a non fare nulla, gironzolando per le strade tutto il giorno.
Il centro di Horgesti è il pozzo di pietra, attorno a cui si radunano i bambini per bere, buttando la testa nel secchio, in condizioni igieniche che probabilmente ci stupirebbero. Ma Horgesti è un paese semplice, dove le persone vivono di agricoltura, dove anche i bambini e i ragazzi lavorano nei campi qualche ora al giorno, dove i bambini stessi sono semplici, abituati a giocare per le strade, arrangiandosi con quel che c’è.
È stato difficile inserirci nel gruppo degli animatori e aiutarli, perché erano ragazzi senza esperienza. All’inizio eravamo scettici, lo ammetto, trovandoci di fronte questi ragazzi che non sapevano come si gestisse un’estate ragazzi, come si spiegasse un gioco, quali giochi fare, quali attività proporre… Ma i ragazzi avevano molto entusiasmo e voglia di mettersi in gioco, e alla fine quell’entusiasmo ha travolto anche noi.
È stata una settimana speciale quella ad Horgesti, perché siamo entrati in contatto con diverse povertà: quella economica, quella familiare, quella affettiva. Penso di aver ricevuto più abbracci ad Horgesti che in tutti i miei 21 anni di vita. In ogni volto di quei bambini, grandi e piccoli, vedevamo queste mancanze di affetto, ma allo stesso tempo sul loro viso c’erano dei sorrisi luminosi, che contagiavano.
Ad Horgesti abbiamo riscoperto il valore della semplicità, del sapersi arrangiare con quel che c’è, la bellezza di saltare la corda per ore, anche se sei stanco morto, e di giocare sulla terra battuta di quel cortile dietro alla chiesa. Abbiamo scoperto una genuinità e un accoglienza speciali.
Ed è qui che abbiamo vissuto la seconda missione, che abbiamo chiamato la “missione del fare”: un fare, però, che lasci spazio agli altri, che non invada, che non sia affannoso e perfezionista. Ho imparato che è bello scoprire le mille sfaccettature di un’altra cultura, che le abitudini diverse vanno capite e accolte, senza pretendere di imporre quello che noi crediamo sia giusto.
Quindi la missione è stata più di quello che io mi aspettavo, e so che più dei mille sorrisi che mi sono stati rivolti, più delle sere a giocare a pallavolo in oratorio, più delle risate, più della ciorba cucinata in mille modi diversi, più delle ore passate a girare la corda per i bambini, più della sveglia alle 6 e mezza di mattina, più dei momenti di preghiera e condivisione, più della sera sdraiati in cortile a guardare le stelle, più dei discorsi interminabili dei bambini che volevano spiegarti tutto anche se tu non capivi niente, più degli scooby-doo, più della gelatina dal sapore discutibile, più dell’acqua del pozzo, più delle strade polverose di Horgesti, mi rimarrà molto più di tutto questo.
E, a distanza di più di due mesi dal ritorno, porto il ricordo di un Paese molto diverso da come me l’aspettavo, di un paese in cui mi sono sentita accolta e voluta bene, di una comunità salesiana in cui Don Bosco è veramente vivo, di una povertà forse non così evidente, ma presente, di tanti bambini e ragazzi che mi hanno ricordato il valore delle semplicità e della genuinità.
Porto il ricordo di un’esperienza importante, perché la missione non è questione di geografia, ma di cuore, e di quanto il tuo cuore è aperto a ricevere tutto quello che gli altri ti donano. E il mio cuore è tornato dalla Romania pieno fino all’orlo.

Mulţumesc Romania!

Francesca Lombardo

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